Sono arrivata in Italia il 22 maggio del 2010, avevo 14 anni e ricordo ancora quel giorno come se fosse ieri, pur essendo già passati 8 anni. Sono arrivata qui con la mia famiglia, ma inizialmente mi sentivo comunque persa. Ogni passo è stato difficile ma soddisfacente, e ho accumulato con il tempo tante piccole grandi vittorie.
Ricordo la barriera della lingua e la mia voglia pressante di imparare l’italiano il più velocemente possibile (sebbene ancora adesso non possa considerare il mio italiano perfetto). Ma la lingua era solo la punta di un iceberg più grande, perché ero abituata e mi piacevano cose di cui gli altri ragazzini nemmeno  conoscevano l’esistenza. Quando sei adolescente, la tua vita ruota attorno a certi cantanti, programmi TV, libri e interessi che ti portano a socializzare e a fare amicizia con ragazzi simili a te. Fare amicizia e aprirmi considerando queste differenze, per me è stato molto difficile. Inoltre, pur frequentando una scuola internazionale, ero l’unica ragazza “asiatica” in una classe di “occidentali”, e a volte per questo motivo mi prendevano in giro.
Adesso tutte queste difficoltà mi sembrano stupidaggini e le sento lontane. Paradossalmente, quando vado in vacanza in Pakistan, le vecchie amicizie che ho lasciato quando ci siamo trasferiti in Italia mi fanno sempre notare che c’è qualcosa di diverso in me: “non sai più come comportarti qui”.
E nonostante ciò, mi sento pakistana e italiana. Sono una persona divisa in tre: le mie origini sono pakistane, la Tahira adulta è italiana, e sento delle influenze americane, forse dovute alle scuole internazionali che ho frequentato e alle persone che ho incontrato e con le quali sono cresciuta.
Essere musulmana è qualcosa che in qualche modo ha influenzato la mia vita in Italia: pensa solo al fatto che non bevo alcolici in un Paese dove bere è un modo per socializzare. I miei compagni di classe il sabato sera uscivano per un drink o per andare in qualche club, cose alle quali non ero abituata (e nemmeno interessata). Quindi sì, la mia religione mi ha esposto in qualche modo all’attenzione degli altri. Per 8 mesi ho anche indossato il velo, salvo poi decidere di toglierlo perché stava diventando difficile fare qualsiasi cosa in pubblico, dal prendere l’ autobus, al caffè in un bar. La gente mi fissava, faceva domande stupide tipo “non senti caldo?”. Una delle mie amiche mi aveva persino chiesto cosa avrei fatto se me l’avesse strappato. I comportamenti della gente mi confondevano e quindi ho smesso di metterlo.
È strano, perché noi, che veniamo da Paesi (passami il termine) “meno” sviluppati, abbiamo l’idea del mondo occidentale, come luogo generalmente più aperto e tollerante verso la diversità. Beh, non è esattamente quello che ho vissuto. I preconcetti e gli stereotipi, non sono forti, ma esistono ancora. E mi chiedo sempre perché persone che hanno studiato, e a cui la vita ha dato opportunità reali, ignorano l’importanza dell’inclusione e il buono che potrebbe portare una globalizzazione “giusta”. Ora più che mai, non si rendono conto che i migranti non sono un pericolo.
Ma non fraintendermi, sono grata di tutto ciò che questo posto mi ha dato, e so che in ogni società ci sono persone buone e meno buone. Ovviamente ho incontrato tante persone gentili, accoglienti e di larghe vedute, e intere famiglie il cui supporto è stato fondamentale: una boccata d’aria fresca quando più ne avevo bisogno e mi sentivo persa. Persone di cui non potrei fare a meno. Infatti, quando mi viene chiesto dove mi vedo in futuro, rispondo subito che non mi vedo in nessun posto che non sia l’Italia. Non vivrei in Pakistan, né in nessun altro Paese, solo in Italia. Succederà pure di dover lasciare l’Italia per lavoro, ma avendo la possibilità di scegliere e tornare, tornerei sempre qui.